Rime di Guido Cavalcanti edite ed inedite aggiuntovi un volgarizzamento antico
non mai pubblicato del comento di Dino del Garbo sulla canzone Donna mi prega per opera di Antonio Cicciaporci
Guido Cavalcanti
Antonio Cicciaporci
1
Rime di Guido Cavalcanti edite ed inedite aggiuntovi un volgarizzamento antico
non mai pubblicato del comento di Dino del Garbo sulla canzone Donna mi prega per opera di Antonio Cicciaporci
Guido Cavalcanti
Antonio Cicciaporci
Carli
Firenze
1813
Textual apparatus will be added later.
Commentary
Textual History: Composition
Textual History: Revision
RIME
DI GUIDO CAVALCANTI
EDITE ED INEDITE
AGGIUNTOVI UN VOLGARIZZAMENTO ANTICO
NON MAI PUBBLICATO
DEL COMENTO DI DINO DEL GARBO
SULLA CANZONE
DONNA MI PREGA
PER OPERA
DI ANTONIO CICCIAPORCI.
--*--
FIRENZE
PRESSO NICCOLÒ CARLI
1813.
RIME
DI GUIDO CAVALCANTI
GIÀ EDITE.
--*--
SONETTI.
IV.
S'io priego questa Donna, che pietade
Non sia nemica del suo cor gentile,
Tu dì, ch'io sono sconoscente, e vile,
E disperato, e pien di vanitade.
Onde ti vien sì nova crudeltade?
Già rassimigli a chi ti vede umile,
Saggia, e adorna, ed accorta, e sottile,
E fatta a modo di soavitade.
L'anima mia dolente, e paurosa
Piange nei sospiri, che nel cor trova,
Sicchè bagnati di pianto escon fore:
Allor mi par, che nella mente piova
Una figura di donna pensosa,
Che vegna per veder morir lo core.
VII.
Chi è questa, che vien, ch'ogni uom la mira,
E fa di clarità l'aer tremare,
E mena seco Amor, sicchè parlare
Null'uom ne puote, ma ciascun sospira?
Ahi Dio, che sembra, quando gli occhi gira?
Dicalo Amor, ch'io nol saprei contare;
Cotanto d'umiltà donna mi pare,
Che ciascun'altra in ver di lei chiam'ira.
Non si porria contar la sua piacenza;
Ch'a lei s'inchina ogni gentil vertute,
E la beltate per sua Dea la mostra:
Non fu sì alta già la mente nostra,
E non s'è posta in noi tanta salute:
Che propriamente n'abbiam conoscenza.
VIII.
Perchè non furo a me gli occhi dispenti,
O tolti sì, che della lor veduta
Non fusse nella mente mia venuta
A dire: ascolta se nel cor mi senti?
Una paura di nuovi tormenti
M'apparve allor sì crudele, ed acuta,
Che l'anima chiamò: Donna or ci aiuta;
Che gli occhi, ed io non rimagniam dolenti.
Tu gli hai lasciati sì, che venne Amore
A pianger sovra lor pietosamente
Tanto, che s'ode una profonda boce:
La qual dà suon: chi grave pena sente
Guardi costui, e vederà'l suo core
Che morte il porta in man tagliato in croce.
XII.
Una giovene Donna di Tolosa
Bella e gentil, di onesta leggiadria,
Tant'è diritta, e simigliante cosa
Ne'suoi dolci occhi della donna mia,
Che fatto ha dentro al cor desiderosa
L'anima in guisa, che da lui si svia,
E vanne a lei; ma tanto è paurosa,
Che non le dice di qual donna sia.
Quella la mira nel suo dolce sguardo,
Nello qual fece rallegrare Amore,
Perchè v'è dentro la sua donna dritta.
Poi torna piena di sospir nel core,
Ferita a morte d'un tagliente dardo,
Che questa Donna nel partir le gitta.
XIV.
Avete in voi li fiori e la verdura,
E ciò, che luce, o è bello a vedere.
Risplende più che'l Sol vostra figura;
Chi voi non vede, mai non può valere.
In questo mondo non ha creatura
Sì piena di beltà, nè di piacere:
E chi d'Amor temesse, l'assicura
Vostro bel viso, e non può più temere.
Le donne, che vi fanno compagnia,
Assai mi piacen per lo vostro amore;
Ed io le prego per lor cortesia,
Che, qual più vi faccia onore,
Ed aggia cara vostra signoria,
Perchè di tutte siete la migliore.
XV.
A BERNARDO DA BOLOGNA.
Ciascuna fresca e dolce fontanella
Prende in se sua chiarezza e vertute,
Bernardo amico mio; e sol da quella,
Che ti rispose alle tue rime acute.
Perocchè in quella parte, ove favella
Amor delle bellezze, che ha vedute,
Dice che questa gentilesca, e bella
Tutte nuove adornezze ha in se compiute.
Avvegnachè la doglia io porti grave
Per lo sospiro, che di me fa lume,
Lo core ardendo in la disfatta nave,
Mando io alla Pinella un grande fiume,
Pieno di lamie, servito da schiave
Belle ed adorne di gentil costume.
XVI.
Beltà di Donna, e di saccente core,
E cavalieri armati, che sian genti,
Cantar d'augelli, e ragionar d'amore,
Adorni legni in mar forti e correnti:
Aria serena quando appar l'albore,
E bianca neve scender senza venti,
Rivera d'acqua, e prato d'ogni fiore,
Oro, e argento, azzurro in ornamenti.
Ciò, che può la beltate, e la valenza
Della mia Donna in suo gentil coraggio,
par, che rassembre vile a chi ciò guarda;
E tanto ha più d'ogni altra conoscenza,
Quanto lo ciel di questa terra è maggio,
A simil di natura ben non tarda.
XVII.
Novella ti so dire, odi Nerone,
Che i Buondelmonti trieman di paura,
E tutti e Fiorentin non gli assicura,
Vedendo, che tu hai cor di lione.
E più treman di te, che d'un dragone,
Veggendo la tua faccia, ch'è sì dura:
Che non la riterrian ponti, nè mura,
Ma sì la tomba del Re Faraone.
Oh come fai grandissimo peccato,
Sì alto sangue voler discacciare,
Che tutti vanno via senza ritegno!
Ma bene è ver, che rallargar lo pegno,
Di che potresti l'anima salvare,
Se fussi paziente del mercato.
XX.
A DANTE ALIGHIERI.
Vedesti al mio parere ogni valore,
E tutto gioco, e quanto bene uom sente,
Se fusti in pruova del signor valente,
Che signoreggia il mondo dell'onore:
Poi vive in parte dove moia muore,
E tien ragion nella piatosa mente:
Sì va soave ne'sonni alla gente,
Che i cor ne porta sanza far dolore.
Di voi lo cor se ne portò, veggendo
Che vostra Donna la morte chiedea:
Nodrilla d'esto cor, di ciò temendo.
Quando t'apparve, che sen gìa dogliendo,
Fu dolce sonno, ch'allor si compiea,
Che'l suo contrario lo venia vincendo.
XXI.
AL MEDESIMO.
Se vedi Amore, assai ti prego, Dante,
in parte là ove Lappo sia presente,
Che non ti gravi di por sì la mente,
Che mi riscrivi, s'egli il chiama amante:
E se la Donna gli sembra aitante,
E se fa vista di parer servente:
Che molte fiate così fatta gente
Suol per gravezza d'Amor far sembiante;
Tu sai, che nella corte, là ove regna
Non può servire uomo, che sia vile
A Donna, che là dentro sia perduta;
Se la soffrenza lo servente aiuta,
Puoi di leggier conoscer mostro stile,
Lo quale porta di mercede insegna.
XXII.
A DANTE ALIGHIERI.
Io vengo il giorno a te infinte volte,
E trovoti pensar troppo vilmente:
Molto mi duol della gentil tua mente,
E d'assai tue vertù, che ti son tolte.
Solevati spiacer persone molte;
Tutto fuggivi la noiosa gente:
Di me parlavi si coralemente,
Che tutte le tue rime avea accolte.
Or non mi ardisco, per la vil tua vita,
Far dimostranza che'l tuo dir mi piaccia;
Nè'n guisa vegno a te, che tu mi veggi.
Se'l presente sonetto spesso leggi,
Lo spirito noioso, che ti caccia,
Si partirà dall'anima invilita.
XXIII.
A GUIDO ORLANDI.
La bella donna, dove Amor si mostra,
Che tanto è di valor pieno ed adorno,
Tragge lo cor della persona vostra,
E prende vita in far con lei soggiorno.
Perchè ha sì dolce guardia la sua chiostra,
Che il sente in India ciascun Unicorno:
E la virtù dell'armi a farvi giostra
Verso di noi fa crudel ritorno.
Ch'ella è per certo di sì gran valenza,
Che già non manca a lei cosa di bene,
Ma creatura la creò mortale.
Poi mostra, che in ciò mise provvidenza;
Che al nostro intendimento si conviene
Far pur conoscer quel, che a lei sia tale.
XXV.
Guarda, Manetto, quella sgrignutuzza,
E pon ben mente com'è sfigurata,
E come bruttamente è divisata,
E quel che par quand'ella si raggruzza.
E s'ella fosse vestita d'un'uzza
Con cappellina, e di vel soggolata,
E apparisse di dì accompagnata
D'alcuna bella donna gentiluzza,
Tu non avresti iniquità sì forte,
Nè tanta angoscia, o tormento d'amore,
Nè sì rinvolto di malinconia,
Che tu non fossi a rischio della morte
Di tanto rider, che apirebbe il core.
O tu morresti, o fuggiresti via.
XXVII.
S'io fossi quello che d'amor fu degno,
Del qual non trovo sol che rimembranza,
E la donna tenesse altra sembianza,
Assai mi piaceria sì fatto segno.
E tu, che se'dell'amoroso regno
Là onde di merzè nasce speranza,
Riguarda se'l mio spirrito ha pesanza,
Ch'un presto arcier di lui ha fatto segno.
E tragge l'arco, che li tese Amore,
Sì lietamente che la sua persona
Par che di giuco porti signoria.
Or odi maraviglia ch'ella fia,
Lo spirito fedito li perdona
Vedendo che li strugge il suo valore.
XXIX.
Dante, un sospiro messagger del core
Subitamente m'assalì dormendo;
Ed io mi disvegliai allor temendo
Ched egli fosse in compagnia d'Amore.
Poi mi girai, e vidi il servitore
Di mona Laggia, che venia dicendo.
Aiutimi pietà, sì che dicendo
Io presi di pietà tanto valore,
Ch'io giunsi amore, che affilava i dardi.
Allor lo domandai del suo tormento,
Ed elli mi rispose in questa guisa:
Dì al servente che la donna è presa,
E tengola per far suo piacimento,
E se nol crede, dì che agli occhi guardi.
XXXI.
O tu, che porti negli occhi sovente
Amor tenendo tre saette in mano,
Questo mio spirto, che vien di lontano
Ti raccomanda l'anima dolente;
La qual ha già feruta nella mente
Di due saette l'arcier soriano,
E alla terza apre l'arco, ma sì piano,
Che non m'aggiunge essendoti presente.
Perchè saria dell'alma la salute,
Che quasi giace infra le membra morta
Di due saette, che fan tre ferute.
La prima dà piacere, e disconforta,
E la seconda desìa la virtute
Della gran gioia, che la terza porta.
XXXII.
Se non ti caggia la tua Santalena
Giù per lo colto tra le dure zolle:
E venga a man di qualche villan folle,
Che la stropicci, e rendalati a pena;
Dimmi se'l frutto, che la terra mena,
Nasce di secco, di caldo, o di molle:
E qual è'l vento, che l'ammorata, e tolle:
E di che nebbia la tempesta è piena.
E se ti piace, quando la mattina
Odi la voce del lavoratore,
E'l tramazzar dell'altra sua famiglia;
Io ho per certo, che se la Bettina
Per soave spirito nel core,
Del nuovo acquisto spesso ti ripiglia.
BALLATE.
II.
Io vidi donne con la Donna mia:
Non che niuna mi sembrasse Donna;
Ma simigliavan sol la sua ombria.
Già non la lodo, se non perch'è'l vero,
E non biasimo altrui, se m'intendete:
Ma ragionando muovesi un pensiero
A dir: tosto miei spiriti morrete.
Crudei, se me veggendo non piangete;
Che stando nel pensier gli occhi fan via
A lagrime del cor, che non la oblia.
Se m'hai del tutto obliato mercede,
Già però fede il cor non abbandona;
Anzi ragiona di servire a grato
Al dispietato core.
E qual ciò sente, simil me non crede;
Ma chi tal vede? certo non persona;
Ch'Amor mi dona un spirito in suo stato,
Che figurato more:
Che quando quel piacer mi strigne tanto,
Che lo sospir si mova;
Par che nel cor mi piova
Un dolce Amor sì bono,
Ch'io dico: Donna tutto vostro sono.
VI.
La forte, e nova mia disavventura
M'ha disfatto nel core
Ogni dolce pensier, ch'i'avea d'Amore.
Disfatta m'ha già tanto della vita,
Che la gentil picevol donna mia
Dall'anima distrutta s'è partita;
Sicch'io non veggio là, dov'ella sia:
Non è rimassa in me tanta balia,
Ch'io dello suo valore
Possa comprender nalla mente fiore.
Vien, che m'usside un sì gentil pensiero,
Che par che dica, ch'io mai non la veggia;
Questo tormento dispietato, e fiero,
Che struggendo m'incende, ed amareggia:
Trovar non posso a cui pietate chieggia,
Mercè di quel signore,
Che gira la fortuna del dolore.
Pien d'ogni angoscia in loco di paura
Lo spirito del cor dolente giace
Per la fortuna, che di me non cura,
C'ha volta morte, dove assai mi spiace;
E dà speranza, ch'è stata fallace.
Nel tempo che si more,
M'ha fatto perder dilettevoli ore.
Parole mie disfatte, e paurose
Dove di gir vi piace ve n'andate,
Ma sempre sospirando, e vergognose
Lo nome della mia Donna chiamate:
Io pur rimango in tanta avversitate,
Che qual mira di fore
Vede la morte sotto'l mio colore.
VII.
Era in pensier d'Amor, quand'io trovai
Due forosette nove:
L'una cantava, e piove
Gioco d'Amore in nui.
Era la vista lor tanto soave,
Tanto quieta, cortese, ed umile;
Ch'io dissi lor: voi portate la chiave
Di ciascuna virtute alta, e gentile:
Deh forosette non mi aggiate a vile:
Per lo colpo, ch'io porto,
Questo cor mi fu morto,
Poichè'n Tolosa fui.
Elle con gli occhi lor si volser tanto,
Che vider come'l core era ferito;
E come un spiritel nato di pianto
Era per mezzo dello colpo uscito.
Poichè mi vider così sbigottito,
Disse l'una che rise;
Guarda come conquise
Gioia d'Amor costui.
Molto cortesemente mi rispose
Quella, che di me prima aveva riso.
Disse: la Donna, che nel cor ti pose
Con la forza d'Amor tutto'l suo viso,
Dentro per gli occhi ti mirò sì fiso,
Ch'Amor fece apparire:
Se t'è grave il soffrire,
Raccomandati a lui.
L'altra pietosa piena di mercede,
Fatta di gioco in figura d'Amore
Disse: il suo colpo, che nel cor si vede,
Fu tratto d'occhi di troppo valore;
Che dentro vi lassaro uno splendore,
Ch'i'nol posso mirare:
Dimmi, se ricordare
Di quegli occhi ti pui?
Alla dura quistione, e paurosa,
La qual mi fece questa forosetta,
Io dissi: e'mi ricorda, che'n Tolosa
Donna m'apparve accordellata, e stretta,
La quale Amor chiamava la Mandetta:
Giunse sì presta, e forte,
Che'nfin dentro alla morte
Mi colpir gli occhi sui.
Vanne a Tolosa, Ballatetta mia;
Ed entra quetamente alla dorata:
Ed ivi chiama, che per cortesia
D'alcuna bella Donna sia menata
Dinanzi a quella, di cui t'ho pregata:
E s'ella ti riceve,
Dille con voce leve:
Per mercè vegno a vui.
IX.
In un boschetto trovai pastorella
Più che la stella bella al mio parere.
Capegli avea biondetti, e ricciutelli,
E gli occhi pien d'amor, cera rosata:
Con sua verghetta pasturava agnelli;
E scalza, e di rugiada era bagnata:
Cantava come fosse innamorata,
Era adornata di tutto piacere.
D'Amor la salutai immantemente,
E domandai, s'avesse compagnia:
Ed ella mi rispose dolcemente,
Che sola sola per lo bosco gia;
E disse: sappi, quando l'augel pia;
Allor disia lo mio cor drudo avere.
Poichè mi disse di sua condizione,
E per lo bosco augelli udio cantare,
Fra me stesso dicea: or è stagione
Di questa pastorella gioi'pigliare:
Mercè le chiese, sol che di baciare,
E d'abbracciare fosse'l suo volere.
Per man mi prese d'amorosa voglia,
E disse, che donato m'avea'l core:
Menommi sotto una freschetta foglia,
Là dov io vidi fior d'ogni colore:
E tanto vi sentio gioi', e dolzore,
Che Dio d'Amor mi parve ivi vedere.
XI.
Perch'io non spero di tornar giammai,
Ballatetta, in Toscana,
Va tu leggiera, e piana
Dritta alla Donna mia,
Che per sua cortesia
Ti farà molto onore.
Tu porterai novelle de'sospiri
Piene di doglia, e di molta paura:
Ma guarda, che persona non ti miri,
Che sia nimica di gentil natura;
Che certo per la mia disavventura
Tu saresti contesa,
Tanto da lei ripresa,
Che mi sarebbe angoscia;
Dopo la morte poscia
Pianto, e novel dolore.
Tu senti, Ballatetta, che la morte
Mi stringe sì, che vita m'abbandona;
E senti come'l cor si sbatte forte
Per quel, che ciascun spirito ragiona:
Tant'è distrutta già la mia persona,
Ch'i' non posso soffrire:
Se tu mi vuoi servire
Mena l'anima teco,
Molto di ciò ti preco,
Quando uscirà del core.
Deh Ballatetta, alla tua amistate
Quest'anima, che triema, raccomando:
Manala teco nella sua pietate
A quella bella Donna, a cui ti mando:
Deh Ballatetta, dille sospirando,
Quando le se'presente;
Questa vostra servente
Vien per istar con vui,
Partita da colui,
Che fu servo d'Amore.
Tu voce sbigottita, e deboletta,
Ch'esci piangendo dello cor dolente,
Con l'anima, e con questa Ballatetta
Va ragionando della strutta mente.
Voi troverete una Donna piacente
Di sì dolce intelletto,
Che vi sarà diletto
Starle davanti ognora.
Anima e tu l'adora
Sempre nel suo valore.
RIME
DI GUIDO CAVALCANTI
INEDITE.
--*--
SONETTI.
II.
Amore, e Mona Lagia, e Guido, ed io
Possiam ben ringraziare un ser costui,
Chenda partiti sapete da cui,
Nol vo contar per averlo in oblio.
Poi questi tre più non v'anno disio,
Ch'eran serventi di tal guisa in lui,
Che veramente più di lor non fui,
Immaginando ch'elle fosse Idio.
Sia ringraziato Amor, che se ne accorse
Primieramente, poi la Donna saggia,
Che in quel punto li ritolse il core.
E Guido ancor, che n'è del tutto fore,
Ed io ancor, che'n sua virtute caggia;
Se poi mi piacque non si crede forse.
III.
Una figura della Donna mia
S'adora, Guido, a San Michele in Orto,
Che di bella sembianza, onesta, e pia,
De'peccatori è refugio, e conforto;
E quale a lei divoto s'umilia
Chi più languisce, più n'ha di conforto;
Gli'infermi sana, i Demon caccia via,
E gli occhi orbati fa veder scorto.
Sana in pubblico loco gran languori,
Con reverenza la gente l'inchina,
due luminara l'adornan di fuori.
La voce va per lontane cammina;
Ma dicon ch'è idolatra i Frà Minori,
Per invidia, che non è lor vicina.
CANZONI.
I.
O povertà come tu sei un manto,
D'ira, d'invidia, e di cosa diversa!
Così sia tu dispersa,
E così sia colui, che ciò non dice.
io dico sol per sodisfarmi alquanto
Di te, o sposa, d'ogni cosa persa,
Per la quale è sommersa
D'onor al mondo ogni viva radice.
Tu privazion d'ogni stato felice,
Tu fai la morte altrui sempre angosciosa,
Bizzarra e disdignosa;
Tu più che morte altrui sempre angosciosa,
E nel voler d'ogni animo privata.
Con ragion più che morte sei fuggita,
Sol perchè morte ogni uom tardo la spera;
Ma di te cruda fera
Mai non si vide cosa giusta, e diva.
La morte può ben l'uom privar di vita,
Ma non di fama, e di virtute altera:
Anco felice e vera
Riman perpetual nel mondo e viva.
Ma chi a tue foce sconsolata arriva,
Sia quanto vuol magnanimo e gentile,
Che pur tenuto è vile.
E perciò che nel tuo abisso cala
Non speri in alcun pregio spander l'ala.
E perciò ha terror mia mente ingombra,
Ch'io prenda alquanto studio al mio riparo,
Che s'io discerno chiaro,
Per te al furto il leal si conduce,
Per te l'uom giusto a tirannia se adombra,
Per te diventa il magnanimo avaro,
E d'ogni vizio amaro,
Secondo'l mio parer, tu ne se'duce.
Adunque non s'acquista per te luce,
Anzi si vien nel tenebroso inferno,
E come chiar discerno,
Infermità, prigion, morte, e vecchiezza
Al tuo rispetto è luce di dolcezza.
E con ipocresia benchè sian molti,
Che appellan te con verace desio,
Ed allegano Iddio,
Come il tuo stato non gli parve grave;
Ma ben si sa per gli uomini non stolti
Se è pover chi del tutto può dir mio;
Lo m'entendo ben io,
Che a quello il grande affanno par soave.
Di Dio fu tutto, e tutto ebbe, e tutto ave.
Non dirà alcun che lui povero fù
Nel tempo che quaggiù
Per dar la gloria a noi visse visibile,
Perocchè tutto aver gli era possibile.
Canzon tu te ne andrai peregrinando.
E s'alcun trovi che contro ti dia,
Che povertà non sia,
Assai più fiera ed aspra ch'io non dico
La tua risposta sia breve parlando,
E dì con lui se move ipocresia,
E poi con voce pia
Dirai, che poco men son che mendico,
E non poss'esser di me stesso amico.
V.
L'ardente fiamma della fiera peste,
Nemica di virtù, che più s'accende
D'altrui pace, che'ntende,
Fermata nel disio che di suo guerra
Nè perde suo color, forza, nè veste
Per benefizio che da virtù prende;
Ma dappoi quel comprende
Sempre più duol, che'n se altro non serra,
E quella, che talor volgiendosi erra
Di su in giù mutando como i piace,
Qual sia più verace,
M'ha tolto del bel gir la dolce vista,
Che mai non si racquista,
E spento di piacer sì l'intelletto,
Che grave duolo li serà diletto.
Piange la trista mente ognor più forte
Quant'è più del martir vinta, e smarrita
La deliziosa vita,
Che i dolenti sospir'nanzi le adduce:
Ma quel che più l'offende assai morte,
E confonde ogni spirto, che l'aita,
È l'amara ferita
Di quel signor, che mio stato conduce,
Cui mercè sempre con pietà fu duce,
E le quattro soror furon nutrice,
Che fan ciascun felice,
Della cui grazia mi veggio sì privo,
Che'n braccio a morte vivo,
E qulla disioso a voce chiamo
Como diletto, che nel cor più i'bramo.
Quanto fu nella volta aspra, ed acerba
La rota che mi preme in capo, e strappa,
La voce non s'arrappa
A poter dimostrar tanta doglienza,
Che la mi tolse il ben, che più mi snerba,
E delle vive menbra il sangue aggrappa
Con infinita mappa
Di qul dolor, ch'è for d'ogni sentenza,
Togliendomi quel Dio, che mi diè essenza
Nel mondo di poter pregiar l'onore
Con suo falso colore,
Onde nel gran disio speranza perde,
Che mai non si rinverde:
Perchè nel tor di lui la falsa, ahi lasso,
Chiusegli d'ogni lato il giro, e'l passo.
L'altra nemica, dispiatata, cruda,
Cotanto al mio dichino saggia, e accorta
Quanto la vista porta,
Con più superba fronte ancor m'assale,
Di viva luce l'anima dinuda,
E quella posa di luce m'è scorta,
Ch'ogni pena fa morta
Con gi gravi flagel, ch'a tanto vale:
O forma di pietà vagliami quale
Io fu'con voi nel tempo già giocondo,
Se vi dispaccio al mondo,
Non morda la mia vita ogni tormento;
Ma giusto sentimento
Retro la spinga per lo vostro onore,
Che ciò mi fie gran gioja, e non dolore.
Se questa rabiosa sen fede
Fu vinta da pietà nel primo ponte
Del dolce, e chiaro fonte;
Dell'intelletto vostro, ond'io pur sono,
E nel secondo perdesi mercede,
In cui la mente ha posta la sua fronte;
Alle virtute conte
Mancheresti d'onor, e'ha sì gran sono
Dunque perfetto lume, e dolce trono
Dell'una all'altra vinca questa omai
Sicchè cotanti guai
Non veggia mia finita quant'io pense,
E se nel vostro senso
Manca per mio fallir sì fatta voglia,
Movavi onor dell'onorata spoglia.
Parole disonate in forma oscura
Con quei sospir piangendo, che vi mena,
Mostreratti la pena,
Che parlar non si puote, tanto e dura
Alla dolce figura,
Che mossa da virtù mi farà forte
D'umana vita, o di compiuta morte.
X.
Io son la donna che volgo la rota,
Sono colei, che tolgo, e do stato;
Ed è sempre biasmato
A torto el modo mio da voi mortali.
Colui, che tien la sua mano alla gota,
Quando mi rende quel, ch'io gli ho prestato,
Guarda s'i'ho mai dato
Stato ad alcuno a pruova de'miei strali.
Dico che chi monta convien che cali,
E dica cala, e non dica converso
Mio giudizio è perso;
Che allor coi troverete le ragione,
Che sia il Re Artù trovato da barone
Voi vi maravigliate fortemente
Quando vedete un ozioso montare,
E l'uom giusto calare,
Lagnandovi di Dio, e di mia possa:
In ciò peccate molto umana gente,
Che'l sommo Sir, che'l mondo ebbe a creare,
Non mi fa tor nè dare
Cosa ad alcuno senza giusta mossa:
Ma è la mente dell'uom tanto grossa,
Che comprender non può cosa divina;
Dunque gente tapina
Lasciate'l lagno, che fate di Dio,
Che con giustizia tratta'l buono, e'l rio.
Se voi sapeste con che duro foco
Di gran rancure, e di sollecitudine
Dio batte in su l'ancudine
Di quei ch'al mondo tengon alti stati,
Più tosto che l'assai vorresti'l poco,
E che li gran palagi solitudine,
Tant'è la moltitudine
D'affanni forti, c'han questi malnati.
Vedete ben se sono sciagurati,
Che del figliuolo non si fida'l padre.
O ricchezze, che madre
Sete d'un verme tal, che sempre'l core
Rodete a lui, che'n voi pone'l suo amore.
Anche se riguardate al fine crudo,
Che fanno una gran parte di coloro,
C'hanno città, ed oro,
E gente molta sotto lor bacchetta;
Tal m'è nimico, che mi verrà drudo,
Dicendo Dio ti loda, e te adoro,
Ch'io non fui di costoro,
Che morte fanno tanto maladetta;
Ma vostra mente è d'avarizia stretta,
Che celala d'ogni lume verace,
Mostrandovi che pace
Sia e fermezza nelli ben mondani,
E che gli trasmuti el dì in cento mani,
Ma se nel mio albergo usasse invidia,
El quale è ch'io veggio il villanello,
Avrélo in diletto.
Moltotta è ch'io veggio il villanello,
Ve co'suo' buoi sanza ira o accidia,
E fa el solco suo dritto e perfetto,
Truova el campo suo netto
Di veccia, loglio, e d'ogni reo fuscello;
Volge'l pensier suo lieto tutto in quello,
Prende speranza in Dio, che sua fatica
Gli dia sì fatta bica,
Che l'anno reggerà la sua famiglia,
E suo pensiero in altro non s'appiglia.
Di ragionar con voi più non intendo,
Che'l mi oofizio vuol continovo uso,
Se non abbiate schiuso
Quel, che avete da me ora udito,
Ed ancor noti tra voi chi ha senno,
Che la mia rota ha sì volubil fluso,
Ch'al torcere del muso
Quel, ch'è disopra mando in basso lito.
Non fu, nè è uom sì scaltritto,
Che avesse, o abbia, o possa, dico, avere
Contra me mai podere.
Chi non seguita tutte le mie voglie
Sente perversità con grave doglie.
Canzon, che fatta fosti sotto un faso
Di matera alta con parlare umile,
Va col tuo dritto stile
Tanto che truovi Maestro Tommaso,
Digli che molta roba in picciol vaso
Caper non può, ond'io vo che mi scusi
Agli uomin, che son usi
Di parlar cose alte, e dire eroico,
Che prima è l'uom discepol che buon loice.
XI.
O lento, pigro, ingrato, ignar che fai,
O peccatore, in gran peccato involto,
E solo a dilettar se puoi t'asetti.
Io pur ti chiamo, e tu sordo ti fai
Per non udir, credendomi aver tolto
Lo corso del venir, quì ti rasetti:
Tu credi ch'io al tuo piacer m'aspetti,
Ed io ti son d'intorno al cor venuta
Entro per li tuoi spiriti e difetti,
Siccome tu non sai disconosciuta;
Di piangere or non val perch'io ti lassi
Mostrar pietà o star cogli occhi bassi.
Quand'io senti'quella diversa voce
Parlar dentro da me sì crudelmente,
Che l'anima tremava sopra'l core,
Lo spirito e'l pensier li fece croce
Perdendo la virtù subitamente,
Fuggendo ove scampar non ha valore;
Poi pur riprese tanto di vigore
Quella poca di vita, che sostenne
Concetta la parola nel dolore,
Che molto fragel nella bocca venne
Dicendo, ricco, bello e giovan sono,
Morte perdonami or mi fa'questo dono.
Pietosa non m'ha quasi in quello aspetto
Lasciando la natura mia disciolta
Sì, che per senso alcun sentia conforto.
Parole quasi di perdon rispetto
Disse poi ch'ebbe la mia prima e colta:
Vedi el camin, che ti vien fare scorto;
Un punto è quel, ch'io viver ti comporto;
Perchè di perder t'è l'umana vita
Per la tua giovinezza disconforto:
Ma guarda a che ritorni, e a che t'invita,
Quale allegrezza, o qual dletto arai,
Che non ti lasci i dolci amari guai.
Venendo a me di fuor dal cor partita
Dinanzi agli occhi miei quando la vidi
Con quel peccato in man, che in me parea,
Io vidi la mia faccia scolorita
Tremar per ombra, e'l cor trar guai e stridi,
Pianger la mente nel gran duol, ch'avea:
Allor mi disse che mi concedea
El puro tempo deall giovanezza
Per natural pietà, che si dovea;
Ed io guardadno la nuova allegrezza,
Che mi dovea lasciar quel tempo lasso
Piangendo caddi giù col viso basso.
Quando così mi vide sbigottito
Riprese da parlar più grave stile,
Sicchè d'intender m'era nuovo l'uso,
Dicendo tu ti togli dal partito,
Che prender ti convien, non esser vile,
Perchè paur ti sia nel cor difuso:
Tu vedi ch'egli è umano esser confuso,
E solo a caso posto di ruina;
El mal che de'venir, com'egli è chiuso,
Continua battaglia quì non fina,
Paura ed ira, e subito, non mento,
Vene aspettando el male a compimento.
Morte tu se'sì oscura e tenebrosa,
Che per venire al tuo pensier non truova
Alcun per sua vertù tanto podere,
Guardando la tua fine paurosa,
Ch'aitar lo possa nè vertù, nè pruova,
Nè che potenzia vaglia nè sapere.
Guarda dove conduci, e fai cadere
Cotanto bella e degna creatura,
Onde la levi, e ponla al tuo volere,
Correr la fai in una fossa oscura,
Conquidi o aspra, cruda, e dispietata
Uom donna tanto bella e dilicata.
Io non lascio el venir perchè tu peni,
Tremi, sudi, angosci quando pensi:
Or pensa che lasciar tutto conviene,
Lasciar parenti e amici, e ciò che tieni,
Tuo padre e madre, che così convensi,
Fratelli, suor, figliuoli e tutti beni.
Lascia el vedere, l'udire e la spene:
Lascia ogni senso, e lo'ntelletto tutto,
E ciò che umana vista quì sostiene;
Ch'io già a tale spero t'ho condutto,
Che tu non hai poder di più durare
In questa vita, lasciati passare.
O Creator di tutto l'universo,
Che m'hai creato, e fatto a simiglianza
Dell'immagine tua figura degna,
Dirompi lo mio spirito perverso
A pianger nella tua consideranza
Anzi che tuono a fendere el cor vegna;
Ponmi di contrizion in man la insegna,
E a gloria etterna pena dammi Cristo,
Sì ch'io per la tua via piangendo vegna,
E ch'io sia del peccato aver sì tristo,
Ch'io abbia in un momento meritato
Per tua pieta el commesso, e l'obligato.
Canzon discapigliata va'piangendo,
Rompendo ogni durezza di cor duro;
Dì che nostra natura
Ritorna, e si converte pure in terra;
Ma spirto, che non erra,
La sciagura,
Che l'anima, ch'è pura,
Ritorna in Cielo el suo fatto chiedendo.
The Bernardo da Bologna sonnet is imbedded in an editorial note.
Bernardo da Bologna a M. Guido Cavalcanti
A quella amorosetta forosella
Passò sì il core la vostra salute,
Che sfigurò di sue belle parute
Ond'io le domandai, perchè Pinella?
Udistu mai di quel Guido novella?
Sì feci tal, che appena l'ho credute;
Ché s'allegaron le mortal ferute
D'Amore, e di suo fermamento stella
Con pura luce, che spande soave.
Ma dimmi amico se ti piace, come
La conoscenza di me da te l'ave?
Sì tosto come il vidi, seppi il nome,
Ben è così qual si dice la chiave,
A lui ne mandi trentamila some.
The sonnet is imbedded in an editorial note.
A suon di tromba innanzi che di corno
A suon di trombe innanzi che di corno,
Vorria di fino amor fare una mostra
D'armati Cavalier di Pasqua il giorno;
E navigando senza vento di ostra,
Ver la gioiosa girle poi d'intorno,
A sua difesa non cherendo giostra
A te, che sei di gentilezza adorno,
Dicendo il ver, perch'io la donna nostra
Di su ne prego con gran reverenza
Per quella, di cui spesso mi sovviene,
Che stia al suo Signor sempre leale,
Servando in se l'onor, qual si conviene,
Viva con Dio, che ne sostene ed ale,
Nè mai da lui non faccia dipartenza.
The ballata is imbedded in a note to page 40 where the sonnet“Amore, e Mona Lagia, e Guido, ed io” is printed. This ballata was Guido Orlandi's response to that poem, which Cicciaporci assigns incorrectly to Cavalcanti.
Se avesse detto, amico, di Maria
Grazia plena e pia,
Rosa vermiglia sei plantata in orto,
Avresti scritto dritta similglia;
E veritate e via,
Del nostro fine fu magione e porto
E di nostra salute quella Dia,
Che prese sua contia,
E l'angelo le porse il suo conforto.
E certo son chi in ver lei s'umila,
E sua colpa grandia,
Che sano e salvo il fa, vivo di morto.
Ah qual conforto ti darò che plori
Con Dio li tuoi fallori,
E non l'altrui; le tue parti diclina,
E prendine dottrina
Dal Pubblican, che dolse i suoi dolori.
La Fra Minori sanno la divina
Iscrittura Latina,
E delle fede son difenditori,
Li buon predicatori;
Lor predicanza è nostra medicina.